[L’anno scorso ho tradotto La variabile Rachel di Caroline O’Donoghue, uscito ad aprile per NN. In questa newsletter potete leggere la mia nota di traduzione e le prime pagine del romanzo.]
A luglio, agosto e settembre, racconterò con cadenza settimanale il dietro le quinte di questa traduzione. Parlerò, tra le varie cose, della scelta dei tempi verbali, del tu vs. lei, di riferimenti culturali prettamente irlandesi, di slang e colloquialismi e di tanto altro.
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Tradurre, per me, non è tanto dire (quasi) la stessa cosa – forse perché mi sembra scontato, al netto degli errori umani in cui inevitabilmente incappiamo tutti e da cui ci salvano i bravi revisori – quanto dirla (quasi) nello stesso modo.
Se è vero che tradurre è un processo lungo, stratificato – e a volte anche accidentato – è altrettanto vero che la traduzione comincia, almeno nel mio caso, nel momento in cui leggo il libro per la prima volta. È in quella fase che prendo le decisioni fondamentali, quelle che mi indicheranno la via lungo il cammino.
Quando ho letto La variabile Rachel, qualche mese prima di iniziare a lavorarci, mi è subito stato chiaro verso cosa avrei dovuto tendere: ritmo, scorrevolezza e dialoghi brillanti. Appena ho cominciato a tradurre, però, mi sono resa conto che dietro quel ritmo, dietro quella scorrevolezza e dietro quei dialoghi brillanti c’era anche dell’altro: una nota di fondo agrodolce a fare da contraltare, come in certe sitcom di una volta. E più andavo avanti, più quella nota di fondo agrodolce diventava prepotente.
La variabile Rachel è un romanzo di formazione, più esattamente un romanzo sui vent’anni. Quindi: sulle amicizie totalizzanti, gli amori turbolenti, le sbronze epiche, i sogni ambiziosi, le tormentose incertezze sul futuro.
Rachel ha avuto vent’anni a Cork, in Irlanda, nel 2010. Eppure sono piuttosto convinta che chiunque leggerà questo romanzo si immedesimerà in lei nonostante abbia avuto vent’anni in un altro luogo e in un altro decennio. Perché avere vent’anni è un’esperienza universale che, per certi versi, trascende lo spazio e il tempo.
Leggendo La variabile Rachel, forse ripenserete agli amici che avete perso di vista e a quelli che fanno ancora parte della vostra vita, a chi vi ha spezzato il cuore e a chi vi ha tenuto i capelli mentre vomitavate l’anima, ai concerti che erano vere e proprie esperienze mistiche, alle delusioni, ai tradimenti, alle risate irrefrenabili e ai pianti sotto al piumone, ai sogni che si sono realizzati o che magari, nel corso del tempo, sono cambiati o “si son trasformati in una professione adatta”.
Mentre traducevo La variabile Rachel, ve lo confesso, ho ripensato a tutte quelle cose, e mi sono anche aggrappata a certe sitcom che guardavo e a certi dischi che ascoltavo quando avevo l’età di Rachel, nel tentativo di riprodurre da un lato il ritmo, la scorrevolezza e i dialoghi brillanti, e dall’altro quella nota di fondo agrodolce che – me ne rendo conto adesso – è probabilmente l’autentica cifra stilistica del romanzo ma anche l’essenza dell’avere vent’anni, soprattutto se i tuoi vent’anni li ripercorri – come fa Rachel – a distanza di tempo, guardandoti indietro dopo aver raggiunto una nuova maturità, una diversa consapevolezza di te, degli altri e, in generale, del mondo.
Spero, come sempre, di essere riuscita a dire (quasi) la stessa cosa e soprattutto di essere riuscita a dirla (quasi) nello stesso modo.
1
C’è una sola persona con cui mi capita di parlare del professor Byrne, e quella persona è James Devlin. Perciò ho sempre pensato che se le nostre strade si fossero incrociate di nuovo sarebbe stato a causa sua. Mi sbagliavo. Si sono incrociate di nuovo durante il Toy Show.
Il Late Late Toy Show è un programma televisivo irlandese dove i bambini recensiscono i migliori giocattoli che hanno ricevuto nel corso dell’anno e consigliano ad altri bambini cosa chiedere in regalo a Babbo Natale. Per i piccoli irlandesi è un evento importantissimo, ma per gli adulti che vivono all’estero è addirittura imperdibile. È difficile da spiegare agli stranieri. Ed è parte del suo fascino. Non tutti possono capirlo. E chi non lo capisce non è dei nostri. Forse è proprio a causa di tutta la gente che rivendica la propria irlandesità che ci ostiniamo a riporre le barzellette che capiamo solo noi sugli scaffali più in alto, di modo che chi vuole prenderle debba rivolgersi al personale.
In ogni angolo del mondo vengono allestiti maxischermi affinché degli adulti irlandesi possano spellarsi le mani davanti a bambini di cinque anni che giudicano le Polly Pocket in diretta tv. Sono una redattrice dell’Hibernian Post, un quotidiano per irlandesi che vivono in Gran Bretagna. Per lavoro scrivo di movimenti di expat e di conseguenza anche del Toy Show.
«Sei sicura?» mi chiede Angela. «Non voglio mandarti fino a Soho, al freddo e al gelo, a tre settimane da Natale».
«Non c’è problema» le rispondo, e quasi mi strozzo mentre mi avvolgo al mento una lunga sciarpa.
«Non voglio sembrare quel tipo di collega» aggiunge «ma nelle tue condizioni...».
«Tranquilla, sto alla grande» dico, accarezzandomi la pancia. Da qualche tempo sono approdata a una fase relativamente placida della gravidanza. Le violente nausee e la pericolosa incertezza dei primi mesi mi facevano sentire come se avessi appena intrapreso una lunga caccia alla balena. Dopotutto avevo già abortito in passato. Ma intorno al settimo mese ho raggiunto una specie di malinconica follia oceanica. Non riesco a immaginare la terraferma. Per come la vedo, sarò incinta per sempre.
Mi dirigo verso il bar di Soho che per una sera si è trasformato in un covo di irlandesi in preda alla nostalgia di casa. Un tempo partecipavo a molte serate per expat, soprattutto in occasione di referendum e proteste. Era importante per me. Ci tenevo. E guadagnavo anche bene. I giornali inglesi pubblicavano numerosi articoli sulla lotta per l’aborto in Irlanda e io ero una delle redattrici a cui li commissionavano. Ho intervistato attivisti, membri dell’organizzazione Marie Stopes, persone che avevano perso figlie o mogli a causa di parti complicati e anche un medico che si rifiutava di decidere per conto della madre. È stato un periodo breve ma intenso, e all’epoca essere una giornalista irlandese in Inghilterra significava qualcosa. Partecipavo alle manifestazioni e a seguire mi ritrovavo ai party. La mia rubrica era piena di persone alle quali, da sbronza, promettevo una qualche forma di copertura mediatica che non avevo il potere di fornire.
Quattro anni e un iPhone dopo, ho ancora tutti i loro numeri salvati. Clara abrogazione, Siobhan abrogazione, Ashling abrogazione, Donnacha abrogazione. Sconosciuti che per qualche tempo si sono ritrovati a far parte di uno stesso albero genealogico con un obiettivo comune e, ora che hanno ottenuto quello che volevano, non hanno quasi più niente che li leghi.
Siamo felici di aver conquistato l’aborto e il matrimonio gay, ma in serate come questa ci sentiamo soli.
Non ci sono posti liberi e in preda alla follia oceanica mi dimentico di avere diritto a una sedia. Un uomo della mia età, beatamente accomodato insieme a una comitiva di amici, mi offre la sua.
«Non voglio imbucarmi». Noto immediatamente che il gruppo che si sta godendo la serata è composto principalmente da omosessuali. Per non offendere le divinità della socialità gay, devo almeno fingere di non voler imporre la mia presenza di donna etero. Ovviamente muoio dalla voglia di unirmi a loro.
Il tipo scuote la testa e mi fa accomodare sulla sua sedia. «Nessun problema, miss, nessun problema» mi dice, con un marcato accento dublinese. «Non si lascia una donna incinta in piedi sotto Natale».
«Cosa penserebbe Gesù bambino?» aggiunge un altro, e visto che ormai siamo seduti tutti assieme, divento un membro onorario della comitiva. Mi fa piacere. Mi fanno sentire imponente e speciale, come Maria che appare ai bambini di Fatima.
Alla prima interruzione pubblicitaria, qualcuno mi dà un colpetto sulla gamba. «Scusa» mi dice. È uno dei tizi seduti dall’altra parte del tavolo, col quale non ho ancora scambiato una parola. «Posso chiederti...».
Mi sfugge quello che dice dopo. L’organizzatore della serata silenzia la tv e alza il volume delle casse. Parte C’est la vie delle B*Witched a palla e per un attimo facciamo tutti un balzo sulla sedia. L’organizzatore abbassa subito il volume e solleva le mani, come a chiedere scusa.
Torno a rivolgere l’attenzione al ragazzo.
«... per caso sai come sta?» aggiunge, completando una frase che non ho sentito.
Forse è perché sono tra uomini gay oppure perché mi chiedono spesso del mio migliore amico. O magari è la gravidanza che mi rende distratta e smemorata. Ma sono convinta che si riferisca a James Devlin. È il tipico contesto in cui di solito mi chiedono di James. Nel diagramma di Venn della fama occupa uno strano sottoinsieme: è famoso tra gli irlandesi, è famoso tra i gay, è famoso sui social, ma non è veramente famoso. Se fosse qui stasera, gli chiederebbero un selfie ma non un autografo, per dire. E quando è uno dei cinque sceneggiatori di un film, qualche giornale in patria titola: Pellicola hollywoodiana scritta da un cittadino di Cork. Ecco quant’è famoso.
«È a New York» rispondo, con orgoglio. «Sai, le cose gli vanno bene, e non solo su Instagram. È un autore televisivo».
Il tizio mi guarda perplesso, allora gli dico il titolo del talk show. Un altro sguardo dubbioso.
Aggrotta la fronte. «Non seguivi il seminario di Letteratura vittoriana al terzo anno?» mi fa. «Quello del professor Byrne?».
«Il professor Byrne» ripeto, e per un attimo mi si spegne il cervello. Come se fosse andata via la corrente. Un intero condominio che di colpo resta al buio.
«Frequentavi anche tu la UCC, no?» mi dice adagio. «Seguivamo lo stesso corso. Quello del professor Fred Byrne».
«Sì» rispondo, e nonostante lo shock nel sentire il suo nome, so perfettamente cosa comunica in questo momento la mia faccia. Cerco di smussare la mia espressione ma è troppo tardi. Devo dare delle spiegazioni a questo sconosciuto, ma da che parte cominciare? Come può capire quell’anno a Shandon Street chi non era lì con noi, chi non l’ha vissuto?
«Ascolta, non volevo...» dice, rendendosi conto di aver commesso una gaffe, ma senza sapere come rimediare. «Ho pensato soltanto che, sai, be’, visto che eri una delle sue preferite, o almeno così sembrava, fossi al corrente».
«Al corrente di cosa?» dico. Come posso lasciare intendere a questo sconosciuto che, nonostante tutte le voci che circolavano all’epoca a Cork, non andavo a letto col professor Byrne?
«È in coma» butta lì, frettoloso. «Si è beccato una strana malattia neurologica e adesso è in coma».
A questo stadio avanzato della gravidanza, percepisco il mio corpo a strati – crosta, mantello, nucleo – e quando penso al professor Byrne, d’un tratto fremono tutti. Il professor Byrne, grande e grosso, stravagante, appassionato di vini francesi e pasticcini. Ci portava delle paste portoghesi ancora calde di forno dall’English Market. Gustosa crema gialla dentro, una spruzzata di zucchero caramellato fuori.
La musica sfuma informandoci che la pubblicità è finita e ricomincia il Toy Show. Un ragazzino di Wicklow gira in tondo su una bici.
Devo chiamare James.
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